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Per la stessa ragione della pratica, praticare.

by Simona Chiusolo

Ma quindi cos’è la danza contemporanea? Qui, ovviamente, non c’è volontà di storiografia né tantomeno quella di delinearne i limiti, volendo personalmente intendere il contemporaneo come quel luogo d’espansione degli stessi. Più che rispondere alla domanda, infatti, si vuole dare spazio a un aspetto peculiare della danza contemporanea, ovvero quello delle pratiche performative.

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E quindi creando una nuova domanda ci si chiede. Cos’è la pratica? Per una risposta efficace prendiamo in prestito l’esperienza, gli studi e l’auto intervista di Chrysa Parkinson del 2011, intitolata On Practice in cui, in primo luogo, vengono introdotte le modalità più frequenti di utilizzo del concetto di pratica. Con essa si intende un percorso d’incorporazione delle idee o anche un pensiero attivo, la pratica è anche quell’insieme di attività regolari o abituali che determinano la ricerca del performer-danzatore; infine praticare viene spesso utilizzato quale sinonimo di training per cui quei tentativi quotidiani atti al raggiungimento di uno scopo.

Se i tre ambiti appena enunciati definiscono gli usi più frequenti del concetto di pratica nel mondo del contemporaneo, l’intervista continuerà nel tentativo di chiarificazione dello stesso e lo farà per comparazione. Grazie alla creazione della coppia training-pratica l’autrice ne determina le differenze. Per training spesso ci si riferisce a quella serie di esercizi, per dirla semplicemente, la cui esecuzione permetta il raggiungimento di un obiettivo, un miglioramento tecnico o performativo che sia visibile dall’interno o nello specchio. In altre parole il senso del training risiede nel raggiungimento del risultato finale. La pratica invece ha motivazioni intrinseche spesso non misurabili, può essere introdotta da domande, dalla curiosità o dalla semplice volontà di sperimentazione, come ben sintetizzato da Deborah Hay la pratica è un “imparare senza provare”, una forma di immersione nel presente che crei spazio e tempo per l’attenzione e la consapevolezza.

La Parkinson, che gentilmente continua a donarci le sue riflessioni, induce nella comparazione al fine di crea nuove distinzioni tra pratica e processo. Detto banalmente: un processo creativo consente la produzione di un prodotto in mancanza del quale il processo verrebbe percepito come fallimentare. E la pratica? Il suo scopo non è quello di creare un prodotto artistico, ma quale praxis trova il suo fine in sé stessa. Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare. Per la stessa ragione della pratica, praticare. Un flusso di pensieri attivi che non si manipolano nella fissità di un oggetto concreto. I due concetti processo-pratica divergono anche nel confrontarsi con la durata. Se a prodotto creato il processo termina, lo stesso non può dirsi della pratica che nel corso della sua esplorazione può dar vita a svariati processi o nessuno, spesso però può donare continuità alla ricerca artistica di un performer, nel corso della sua vita.

Perché la pratica è poi così contemporanea?
La prima risposta sembra essere connessa alla libertà che il concetto di pratica dona: nessuna costrizione nell’incipit, corsi-decorsi e deviazioni accettate, nessun reale scopo da dover mostrare o dimostrare. Un percorso del tutto è possibile non inteso in termini di necessaria trasgressione di presunte regole. Anche una forma di auto-espressione che si spera non si limiti a un proposizione indivisualistica, me se di libertà si parla anche questo è concesso.
La seconda osservazione invece si connette alla resistenza che la pratica esercita sul mondo capitalistico, un atto creativo senza merce che per sua stessa natura si distacca dalle possibili limitazoni sistemiche, ricreando in un certo senso una concomitanza di valori etico-politici e artistici attraverso l’arte.
L’osservazione finale invece sarà una domanda. Quali pratiche costituiscono il nostro quotidiano? Personali o condivise? Quali risposte possibili? Ai praticanti l’ardua sentenza.

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