La danza: un’azione politica?
Se concordando con Angelin Preljocaj è possibile affermare che «la danza agisce, muove le storie, muove le emozioni, svela il nostro rapporto con lo spazio e quindi con il mondo, con l’altro da noi come con il nostro essere corpo che si muove e si narra » allora non si può fare a meno di non riconoscere nella danza un esercizio politico latente.
Il linguaggio gestuale inscritto nel corpo del danzatore lascia affiorare, come da un sogno, il proprio modo di essere e di esserci; di relazionarsi con l’altro da sé, di assumere e prendere, scegliendole, posizioni col proprio corpo, con quello degli altri e in relazione agli altri.
Noi non abbiamo un corpo ma siamo il nostro corpo afferma l’antropologo e filosofo Helmuth Plessner ed il corpo, attraverso la danza, agisce per comunicare, studia e comprende l’essere insieme attraverso un linguaggio fatto di gesti che rilasciano parole, pensieri e azioni .
Si danza politicamente dunque, perché ogni azione è un’affermazione, un evento, una scelta.
C’è forse una sostanziale differenza tra un’azione politica e un’azione danzata?
Non è forse possibile rintracciare in entrambe le azioni la possibilità di manifestare pienamente il proprio essere per esprimere un’idea? Non è forse possibile scorgere la necessità in entrambe le azioni di dirigere una comunità di esseri umani verso il bello e il buono?
“Vi giuro ateniesi di restituirvi Atene più bella di come me l’avete consegnata!” era il semplice giuramento dei neoletti ateniesi nell’antica Grecia. Si trattava di un vero e proprio progetto politico che affondava le sue radici nella concezione greca arcaica “kalòs kài agathòs”, dove bello e buono sono intimamente connessi e interdipendenti.
La danza, si sa, coltiva la bellezza. La costruisce. E per definizione ogni azione che costruisce è un gesto di pace, è l’opposto del verbo distruggere.
Studiare la costruzione di un linguaggio così articolato e codificato, come quello della danza, può essere un invito a realizzarsi come persone complete, intere, consapevoli.
Da questo punto di vista diviene determinante la guida di un buon maestro che non miri a sfornare danzatori “preconfezionati” da esporre sullo scaffale del supermarket sociale, ma artisti dotati di strumenti intellettuali direttivi, indipendenti, pregni di pensiero critico.
Il lavoro dell’apprendimento della danza è un lavoro duro, faticoso, necessita di sforzo e impegno costante. È un processo di adattamento, un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza ma è anche un vero e proprio itinerario dialettico rivolto alla libertà come frutto della conoscenza.
È il tentativo di incorporare un metodo che non faccia dire a ciò che leggiamo quello che noi vorremmo ci fosse scritto, ma il tentativo di assomigliare sempre a quello che si dice, si pensa e si fa.
E non è forse questo un atto politico?
Danzare politicamente vuol dire danzare criticamente, vuol dire poter gestire e discernere tutti i parametri del movimento affinché questo dimostri esattamente la forma del pensiero che si vuole comunicare e condividere. Tutto ciò offre la possibilità di creare un linguaggio universale che può superare i confini e le barriere delle lingue e delle identità, a favore del mettere in connessione diretta corpi e menti diverse, in una comunicazione immediata, universale, in cui il saper ascoltare, attraverso tutto il proprio essere, diventa la qualità più importante.
Danzare politicamente, d’altro canto, vuol dire danzare insieme.
Vuol dire sapersi calare nei panni dell’altro e rinunciare a una parte del proprio ego a favore della comprensione e dell’inclusione dell’altro, del diverso, dello sconosciuto.
Vuol dire intessere una cooperazione comunicativa e interpretativa tra chi guarda e chi danza, tra chi crea e chi danza o tra chi insegna e chi apprende.
Come affermava Antonio Gramsci, tutte le questioni dell’anima e dell’immortalità dell’anima e del paradiso e dell’inferno non sono poi in fondo che un modo di vedere questo semplice fatto: ogni nostra azione si trasmette negli altri secondo il suo valore, di bene e di male, passa di padre in figlio, da una generazione all’altra in un movimento perpetuo . Una danza appunto.
In un mondo così drammaticamente sconvolto dai mostri della guerra e dell’appiattimento del pensiero critico potrebbe sembrare inutile parlare di bellezza.
Potrebbe sembrare frivolo parlare e scrivere di danza.
E invece se pensiamo all’evento catartico che contiene in sé la costruzione della bellezza possiamo affermare che studiare danza coscientemente è un piccolo atto di cambiamento. Una rivoluzione.
E se il principe Myškin di Dostoevskij affermava che la bellezza salverà il mondo, chi si occupa di arte, teatro, musica e danza dovrebbe ricordare che forse non potrà cambiare il mondo ma salvare molta gente.
Per un approfondimento si rimanda a:
M. V. Marchesano, Dalla sala al palcoscenico: il linguaggio gestuale della danza classica. Kinetès edizioni, Benevento 2022
M. V. Marchesano, I sentieri del gesto, L’Argolibro Editore, Agropoli 2017.