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Di nuovo la danza

by Redazione

Sono un’insegnante di danza classica molto fortunata.

Lavoro a tempo determinato in un Liceo Coreutico e la settimana scorsa ho avuto il privilegio, dopo quattordici mesi, di tornare alla sbarra, in una sala di danza insieme ai miei studenti.

Ero emozionata, eravamo emozionati. Silenziosi, increduli, ci tremavano le gambe e quasi stupiti d’essere lì, ci scrutavamo attraverso quelle che ormai sembrano essere diventate appendici del nostro corpo: le mascherine.

Qualcuno mi ha fatto notare che dopo più di un anno inscatolata nel riquadro di una webcam il mio corpo non sembrasse “vero”, e al tempo stesso i corpi degli studenti che avevo davanti, corpi che per anni  ho toccato, manipolato, costruito e decostruito, mi sembravano irreali, immateriali.

Quando dopo l’iniziale spaesamento e  perplessità ho finalmente chiuso la porta e ho dato il levare al maestro accompagnatore al pianoforte, si è rinnovato l’incanto: io e i miei allievi  siamo entrati  in un nuovo tempo e in un nuovo spazio, una dimensione altra.

La sala di danza, il pavimento, lo specchio, io e i miei studenti ci siamo immersi in una sorta di recinto sacro  che solo chi  ha conosciuto la danza può comprendere. Uno spazio dedicato alla cura e all’ascolto del sé e dell’altro, capace di tenere fuori gli affanni e i desideri personali e che sospende il tempo e lo spazio per tutta la durata della lezione.

Per un’ora e mezza ci siamo concessi la meraviglia.

Abbiamo viaggiato insieme,  fondendo i nostri cuori, i nostri intenti, i nostri corpi con la musica, nella musica.

Siamo tornati a casa stanchi ma felici di aver lavorato e di aver ricominciato il cammino.

L’indomani, ripensando alla lezione del giorno prima mi sono resa conto che l’indicazione che ho dovuto suggerire più volte e più delle altre volte, è stata “respirate”!

I miei studenti avevano paura di respirare. E’ come se l’affascinante e naturale dialogo tra il meccanismo dell’espirazione e dell’inspirazione fosse divenuto qualcosa di pericoloso e di innaturale.

Nonostante muovessero il loro corpo i miei studenti  mi apparivano pietrificati, bloccati, serrati.

Ora, sappiamo tutti che il nostro organismo è concepito in modo da consumare ossigeno per restare vivo. Senza respiro non c’è vita, eppure quanto tempo abbiamo trascorso in quest’ultimo anno dietro le mascherine affamati d’aria? Quante volte ci siamo sentiti in colpa per il fatto di desiderare di sbarazzarci di quella  mascherina perché avevamo voglia e bisogno di respirare?

La respirazione, veicolo di ricognizione interna nella pratica della danza, smuove la nostra muscolatura profonda, la parte più interna e intima dell’essere umano. Se dunque respiriamo in profondità nella cavità addominale, quella regione si anima, vive. Ma se la nostra respirazione non è profonda, reprimiamo certi sentimenti associati all’addome.

Uno di questi è la tristezza, poiché è proprio l’addome ad essere interessato al pianto profondo, che è chiamato in inglese bell cry (pianto di pancia). E’ inevitabile quindi che l’individuo che non vuole scoprire queste emozioni annidate nella parte più recondita del  proprio corpo tende a bloccarle trattenendo il respiro. In questi casi succede che il nostro corpo si congeli, si crea un afflusso di ormoni, un battito cardiaco accelerato, una contrazione muscolare improvvisa. È una fase in cui il corpo si immobilizza completamente e la respirazione si blocca. Diventare così immobili è una forte reazione primaria di sopravvivenza e  per l’esistenza di una connessione diretta tra la sensazione e il respiro, si impara che trattenere il respiro e contrarre i muscoli è un ottimo modo per non “sentire” e per mantenere la sicurezza e il controllo di sé nelle situazioni di disagio.

Solitamente, durante la lezione di danza classica si parla poco. Generalmente è l’insegnante che parla, spiega, racconta, chiede.

Gli studenti sanno far parlare il loro corpo, ma questa volta le mie danzatrici  in più momenti hanno avvertito l’urgenza di dirmi “non mi sento, non sento il mio corpo”!

Per il danzatore l’espressione “sentire” il proprio corpo ha a che fare con qualcosa di molto profondo  e delicato. Sentire  durante una lezione di danza diventa sinonimo di vivere, di essere, di esserci.

Chi non sente il proprio corpo non riesce a “sentirsi”e per un danzatore sentire il proprio corpo equivale a usare il corpo con lo stesso agio e la stessa intimità con cui ci si muove nel proprio spazio intimo, a casa propria.

La “casa del corpo” per un danzatore offre un rifugio a occhi aperti, protegge i sognatori, consente di sognare in pace. Il corpo per un danzatore è il primo mondo dell’umanità, dove apprendiamo l’intimità e impariamo a essere umani.

Un danzatore che sente il proprio corpo riesce a riconoscere in esso nascondigli per soddisfare il proprio bisogno di indipendenza e intimità e al tempo stesso le porte del nostro corpo, chiuse a chiave, accostate, socchiuse, spalancate, innescano la meraviglia, la sicurezza, la possibilità, l’avventura.

Attraverso la pratica della danza il nostro spirito può mettere radici e viaggiare ed ecco la magia: un luogo fisico, il nostro corpo, può  trasformarsi in una casa, e come una casa, un asilo per il nostro spirito.

La parola greca asylon significa “che non può essere derubato”a suffragare la sacralità, l’inviolabilità e il rispetto per quello spazio protetto che è il nostro corpo.

L’emergenza socio sanitaria che stiamo vivendo  ha drammaticamente portato al confinamento del corpo in una posizione di marginalità rispetto alla nostra “nuova” esistenza.  Attraverso gli schermi dei nostri cellulari  e computer assistiamo a una sorta di furto e smaterializzazione del corpo.

Quello che rimane del nostro corpo è l’immagine di sé attraverso uno schermo deprivata della possibilità di sentire la chimica che ci consente di creare connessioni attraverso odori, tocco della pelle, impercettibili scie energetiche che rendono i nostri corpi magneticamente attratti l’uno dall’altro.

Aver paura di respirare quando si danza corrisponde  dunque ad aver paura di casa propria, del proprio corpo, del proprio santuario, del proprio posto unico.

Il diritto al nostro santuario è stato ipotecato col diritto alla sicurezza.

Ma quanto può sentirsi sicuro nel mondo un individuo che non si sente più al sicuro nel proprio corpo? Come può un danzatore concedersi alla danza se teme di concedere il proprio respiro al mondo?

Occorrerebbe forse  che la sensibilità cocente che ci consegna la danza ci renda consapevoli del pericolo che stiamo vivendo e  ci consegni la forza e il coraggio per indignarci dinanzi a chi ritiene più sicuro aprire gli stadi di calcio ad un pubblico pagante che ad un danzatore che vorrebbe rientrare a casa propria.

Nel suo corpo.

di Maria Virginia Marchesano

 

Piccola bibliografia utile:

Marchesano M.V., I sentieri del gesto, L’ArgoLibro, Salerno 2017.

Zuboff S., Il capitalismo della sorveglianza,Luiss 2019.

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