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Artisti pugliesi: conversando con Ezio Schiavulli

by Redazione

In piena pandemia e in un momento storico così precario per lo stato dell’arte, con piacere dedico uno spazio ad un coreografo e danzatore barese che da anni promuove lo spettacolo dal vivo in Puglia, invitando artisti di fama internazionale: sto parlando di Ezio Schiavulli.

Da diversi anni amici, tra danzatori e insegnanti, mi parlavano di lui e del suo Network Internazionale Danza Puglia e ogni volta mi promettevo di frequentare le open class proposte nel progetto.

Quest’anno ho finalmente colto l’occasione per iscrivermi al Network ma la pandemia ha nuovamente bloccato il settore artistico. Tra me ed Ezio, tuttavia, è nata subito una grande simpatia e abbiamo sfruttato la modalità on line, ormai quotidiana, per pensare a progetti futuri da realizzare insieme.

Sono colpita dalla sua volontà di non sradicarsi completamente dal territorio, nonostante l’intensa attività all’estero, perché è convinto che ci siano delle potenzialità da sfruttare.

Il Network, progetto pensato e costruito nel 2015, nasce, infatti, con lo spirito di coinvolgere in primis le scuole private della regione Puglia e si apre poi, con gli anni, anche ai danzatori professionisti e ai freelance.

Il nome stesso del progetto, “network”, fa risuonare il concetto di rete e collaborazione, parole chiave del suo lavoro, nonché il leitmotiv dei miei precedenti articoli.

Originario di Bari, Ezio intraprende la carriera di danzatore professionista entrando a far parte dell’Accademia delle Arti Sceniche di Milano diretta da Susanna Beltrami.

Prosegue poi i suoi studi alla London Contemporary of Dancing di Londra e al Centro della Danza Aterballetto di Reggio Emilia.

Comincia a danzare e collaborare in seguito con diversi coreografi e registi internazionali e nel 2007 fonda l’Associazione Expresso Forma-Compagnia Ezio Schiavulli con la quale firma ad oggi ben quindici creazioni.

Diverse sono le città e i dipartimenti di Francia che hanno ospitato la sua Compagnia in residenza, come si legge nelle pagine web a lui dedicate, ma in questa sede mi preme sottolineare che Ezio non è solo un coreografo. In pieno stile francese mostra interessanti qualità da pedagogo e crede che la danza non sia solo destinata sai professionisti ma possa essere uno strumento di comunicazione, oltre che un linguaggio corporeo, aperto a tutti. Lo vediamo quindi attivo come insegnante in scuole di danza professionali, in Francia e Olanda, ma anche in contesti diversi come scuole statali, conservatori e centri educativi dove propone un’idea di movimento che trova una collocazione pedagogica nel progetto intitolato Physical Movement.

Vorrei partire proprio da questo e chiedere a lui un approfondimento sul tema.

Cosa significa Physical Movement, come nasce questo progetto e quali sono i supporti teorici ai quali ti sei ispirato nel pensare ad una nuova tecnica del movimento?

Questo progetto di “nuova tecnica” nasce da uno studio collettivo con danzatori di varie discipline, circensi e attori. Abbiamo pensato insieme ad un lavoro che utilizzasse il pavimento e la respirazione con l’obiettivo di sviluppare un movimento privo dello sforzo fisico, per creare dinamica e prontezza. Questi due parametri non inventano nulla di nuovo nella danza, ma, il mio lavoro crea una coscienza pedagogica maggiore, liberando il danzatore in molteplici possibilità di movimento. Utilizzando questa consapevolezza, si costruisce un lavoro sulla verticalità, sulle linee del corpo, sulla spinta e sul salto.

Pensi che l’improvvisazione possa far parte di un percorso di formazione già a partire dall’adolescenza? Quali sono gli strumenti di cui gli allievi possono avvalersi per esplorare il proprio movimento attraverso l’improvvisazione?

Assolutamente sì, oggi l’improvvisazione è sia un metodo di sviluppo che un metodo di composizione coreografica e di composizione istantanea per tantissimi creatori. A mio parere, deve essere integrato nel percorso di studio di un allievo, anche giovanissimo.

In effetti nella propedeutica si parla per immagini ed elementi chiari che portano il bambino ad esprimersi nello spazio. L’immaginazione è lo strumento con cui esplorare, non solo per i più piccoli ma per tutte le fasce d’età degli allievi in formazione, in quanto costituisce la base della sperimentazione dei danzatori.

Però non sempre condivido, che durante un percorso formativo, il lavoro sull’improvvisazione sia totalmente libero; sono necessari elementi o parametri su cui costruire la qualità del movimento, le differenze di energia, di spazio e di tempo.

L’improvvisazione “libera” è importante in quanto trasmette al danzatore l’idea di libertà e svago, ed è giusto proporla abbinandola ad un lavoro tecnico e pedagogico, che possiamo ritrovare nell’improvvisazione guidata in tutte le tecniche e discipline della danza: moderno, contemporaneo, classico, hip hop e break.

Mi hai raccontato delle tue esperienze pedagogiche in contesti scolastici francesi assolutamente estranei al mondo della danza.

Come nasce la tua idea di portare la danza a scuola e quali sono i tuoi obiettivi?

La mia volontà, più che idea, nasce dall’educazione culturale che ho appreso in Francia durante i sedici anni di attività in diverse regioni, città, centri culturali, istituti scolastici e università.

La differenza tra l’Italia e la Francia non è solo geografica, e sono ironico, ma la nostra visione, la nostra responsabilità, la politica culturale che ci rappresenta, e ancora una volta, la nostra responsabilità di cittadini e di lavoratori.

In Italia ci sono tanti operatori, artisti, enti ma in questi anni, ho constatato che molte volte si ha una visione “acerba”.

Le dinamiche distorte del territorio di appartenenza e gli atteggiamenti precari tra enti e persone, creano le condizioni per un modus-operandi che nasconde dietro di sé “atteggiamenti intellettuali”

evidenziando una prospettiva culturale elitaria.

Non tutto in Francia è rose e fiori, ma, la loro esperienza culturale è stata costruita in tanti anni di battaglie e si fonda su una cultura sociale multipla e su una visione professionale. Questa politica si è ramificata, istituzionalmente, in tutto il territorio nazionale, con antenne regionali ministeriali costituite da professionisti che si spostano per incontrare gli artisti e gli operatori che comprendono così le reali necessità territoriali. Questa politica culturale ha integrato necessariamente le strutture scolastiche includendo tutte le forme artistiche intese come processo di sensibilizzazione e formazione del futuro pubblico e dunque dei futuri cittadini.

È proprio questa visione che ha acceso in me la volontà politica del mio lavoro, di tutte le personalità che oggi costituiscono il mio team artistico, tecnico, organizzativo ed amministrativo.

Parliamo ora della tua vena coreografica. Essere coreografi oggi vuol dire tante cose e forse il panorama italiano, a mio parere, non offre una vera definizione del termine e della professione. Perché hai deciso di fare il coreografo e secondo te cosa significa essere un coreografo oggi?

Non ho deciso di esserlo ma come evidenza ho proposto le mie idee, la mia visione ai coreografi con i quali lavoravo, e loro mi hanno dato credibilità, spazi e sostegni economici per concretizzare le mie proposte e le mie idee.  Questo è stato il mio “start”; a questo si sono susseguiti anni di studio, ricerca, tenacia e tanta volontà di continuare a proporre. L’essere creatore, soprattutto nell’universo coreutico, non si limita solo a proporre un’idea artistica ma bisogna saper coltivare e difendere i rapporti umani e professionali fino ad arrivare ad investire il ruolo di imprenditore della cultura.

Attualmente, indipendentemente dalle zone geografiche, un coreografo non può più nascondersi dietro la stravaganza o l’estro artistico, un creatore è un multitasking nella nostra società che sa osservare, denunciare, accettare, ironizzare, drammatizzare, imporre, sostenere, collaborare e sapersi rispettare per rispettare. È un professionista che gioca un ruolo fondamentale del tappeto sociale: collabora alla costruzione di nuovi cittadini, nuove personalità pensanti.

Questa è la visione che cerco di trasmettere ai miei danzatori, senza mai dimenticare la mia necessità di attingere da loro costantemente. Allo stesso modo, sono convinto che questo aspetto contribuisce anche al percorso e alla realizzazione di un’opera scenica.

La storia della danza ci narra che i grandi maestri della modern dance hanno cominciato ad esplorare il proprio stile attraverso la coreografia. In seguito hanno compreso che per trasmettere alle nuove generazione fosse necessaria la creazione di una tecnica.

Quanto il tuo stile coreografico risente dell’influenza della tecnica o del metodo al quale hai pensato e quanto questo sia per te strumento di formazione per i giovani danzatori?

Il metodo e la tecnica sono supporti che mettiamo in atto per fluidificare il lavoro e la gestione
complessa di una creazione. Anche in famiglia o in società, strutturiamo delle metodologie che portano ad un funzionamento, nel quotidiano, più semplice, sereno e soprattutto dinamico.

Con questa premessa voglio ribadire la necessità di vedere nel processo creativo una fonte di trasmissione reciproca: dal creatore ai suoi performer e viceversa. Ho preso la decisione di continuare a sostenere i miei danzatori nella fase di preparazione quotidiana, quello che nel gergo chiamiamo la lezione o il riscaldamento. Questo obiettivo struttura tutto il gruppo, rafforzando, insieme, le necessità tecniche che affronteremo durante la giornata e trasmettendo la consapevolezza di un senso di appartenenza al gruppo.

Esigenza che rende più fluido il lavoro e risponde alle esigenze tecniche che la proposta coreografica richiede.

Parliamo ora delle tue creazioni. Ho assistito a Silent Poets e ho apprezzato lo stile asciutto, chiaro ed essenziale. Ho trovato interessante il momento dedicato al dialogo fra coreografo, danzatori e pubblico, proponendo l’abbattimento della quarta parete per entrare in contatto con gli spettatori.

Com’è nato questo progetto coreografico e come hai pensato di proporlo al pubblico, non solo attraverso la visione ma anche attraverso il dialogo?

Ancora una volta, questo fa parte della mia necessità di dialogare con il pubblico e di farlo sentire parte attiva del lavoro: nessuno può vivere pensando di essere essenziale a sé stesso. Nell’arte abbiamo bisogno di condividere e di fortificarci con e grazie agli altri. Quindi, da sempre, dalle mie prime produzioni, a chiusura dello spettacolo, chiedo ai teatri di lasciarmi uno spazio per uno scambio con il pubblico. Questo, mi ha permesso col tempo, di rivedere le mie creazioni e di capire dove il lavoro presentava delle pecche e dove proiettava forza.

Silent Poets è uno step di studio, fa parte di un percorso che mi sensibilizza particolarmente: le patologie psicologiche dell’umano. Questa è una ricerca iniziata nel 2004, quando con il mio primo lavoro ho raccontato la figura materna come visione felliniana: imponente e opprimente sino alla manipolazione psicologica del figlio. Mi piace raccontare gli individui, le reazioni e le azioni. Mi piace dare corpo e spazio a tutto ciò che vedo per strada. Abbiamo tanti universi interni che producono poteri assurdi che inglobano storie e mondi paralleli, pensiamo alle religioni…

In Silent Poets ho voluto ricordare tutte quelle personalità che si sono lasciate travolgere dai loro percorsi di crescita creando dualità interne: le personalità borderline. Un omaggio a quegli artisti giovani che dalla loro fragilità psicologica hanno regalato un vasto universo artistico: Janis Joplin, Jim Morrison, Verlaine, Rimbaud, Van Gogh, Basquiat e tantissimi altri.

Creare rete è la parola chiave del Network. Ho notato con piacere la complicità delle insegnanti che da anni frequentano il progetto. Per non parlare del programma variegato con maestri ospiti internazionali e maestri italiani, tra i quali concedimi un elogio a Enrico Coffetti, in quanto appassionata di storia della danza.

Quanto credi in questo progetto e cosa è cambiato dalla prima edizione ad oggi?

Domanda complessa. Ogni progetto che un artista crea, credo che sia il frutto di tanto studio, riflessioni ed energie che si associano ad una tenacia tale per cui ogni step è ricco di grandi volontà. Alla luce di questo, come poter non crederci dopo sette anni di attività e di proposte ma soprattutto di tutela?

Sono sempre più convinto che l’identità comunitaria nella società culturale odierna sia un riscatto ai limiti e alle imposizioni: un esempio per le nuove generazioni, che vivono spesso di “attimi liquidi” e che facilmente abbandonano situazioni, lasciandosi alle loro spalle quei germogli da coltivare.

È un po’ come chiudere un’applicazione o mettere un “like” o non “seguire” più qualcuno.

Voglio continuare ad alimentare questo tipo di visione culturale anche se richiede più tempo e più energie rispetto ad un progetto singolare o individuale.

Mi rendo conto che questo periodo pandemico ci ha comunque cambiati malgrado quello che si è detto durante questa “parentesi sociale” … ne avevo dei dubbi all’inizio della pandemia ma oggi ho le testimonianze di quanto siamo labili e fragili, di quanto i nostri obiettivi si modificano per paura ma a volte facendoci perdere il faro che illumina le nostre necessità. Resto convinto, quindi, che lottare insieme ci renda più solidi, malgrado le differenze che ci abbelliscono ma che ci rallentano. La comunità difende i valori e gli obiettivi.

Recupero, oggi, tutte le mie energie per oltrepassare questo ostacolo imposto e continuare nel mio slancio aggregativo e culturale che identifica questa rete del Network nata dal bisogno di parlare di “danza genuina” di pedagogia e di scambio. Ci saranno sempre i dubbi che mettono in discussione il progetto, noi e gli altri ma, ho imparato che sono i dubbi a fortificare le nostre identità.

Il Network Internazionale Danza Puglia è mutato in questi anni, nessuna edizione si è ripetuta identica, ma sicuramente continuerà a modificarsi, anno dopo anno, perché è fatto da persone di un vasto territorio. Sono e siamo pronti a leggere le differenze, utilizzandole per continuare a modellarci alle necessità culturali, sociali e politiche e individuali. Augurandomi di non modificare nel tempo la mia visione di quest’arte, priva di rivalità e distorte dinamiche, mantenendo un’informazione di una sana identità artistica.

Proprio alla luce della mia esperienza, che continuo a vivere in Francia e che rende consapevoli e forti le proposte che sviluppo nel nostro territorio pugliese, so perfettamente che questo modo di lavorare richiede tanto tempo e dedizione prima che un territorio modifichi le proprie abitudini…voglio ricordare che ogni epoca è composta da quarant’anni di avvenimenti.

Ritornando alla tua domanda, dobbiamo quindi, a mio parere, credere tutti insieme nei cambiamenti da apportare e nei progetti che hanno il gusto della rivincita.

Vorrei che mi lasciassi raccontandomi un tuo desiderio: cosa sogni e cosa speri?

I sogni sono sempre infiniti e correlati alla realtà, quindi sempre in piena mutazione. Desidero una ripresa post-pandemica serena dove tra colleghi ci sia ascolto e lungimiranza, che il sistema politico si renda sempre più conto che gli operatori e gli artisti sono fonte di riscatto sociale e di costruzione per un futuro ad ampio raggio. Desidero che il nostro lavoro sia sempre rispettato come qualsiasi altra rispettabile e sincera professione. Sogno di proiettarmi sempre con il sorriso in questo lavoro e che possa scindere dalla passione le sue esigenze. Sogno di continuare a trasmettere e allo stesso tempo attingere dai giovani per non dimenticare, non tralasciare. Sogno di continuare a sognare!

Leggendo le parole di Ezio colgo l’impegno intellettuale con il quale si cimenta nei diversi progetti e anche la sincera volontà di creare delle sinergie in Puglia.

Non è facile e le dinamiche sono molto complesse ma in quell’ultima frase “sogno di continuare a sognare”, rivedo la speranza di tutti noi artisti che ad ora non possiamo far altro che aggrapparci ai nostri sogni.

Mi ha molto colpito il passaggio in cui Ezio parla del suo rapporto Francia-Italia e vorrei, a tal proposito, fare una breve parentesi.

Da qualche mese gli operatori dello spettacolo hanno deciso di scendere in piazza e manifestare contro uno stato di inattività che perdura da un anno e mezzo circa.

Io stessa ho preso parte ad alcune di queste manifestazioni e ho sostenuto amici e colleghi.

Mi è sembrato quasi anacronistico prendere atto che in Italia, ancora, non si possa parlare di arte come mestiere. Ricordo, ma forse sbaglio, che il professionismo degli artisti è stato inaugurato dai Comici dell’Arte? Domanda retorica…

Però per quanto comprenda e sostenga il settore artistico, in queste manifestazioni sento che manca qualcosa… manca la verità dello stare insieme, della condivisione e della collaborazione.

La differenza tra Francia e Italia non è, appunto, solo geografica ma soprattutto culturale. Quando guardo i video dei flashmob che i francesi organizzano in varie città, cantando all’unisono «Nous on veut continuer à danser encore», vedo i veri figli della rivoluzione.

Non voglio essere retorica e fare affermazioni generaliste che meriterebbero una trattazione storica, mi limito solo ad esprimere un mio parere.

Mi torna però in mente l’immagine di un’attrice barlettana, Michela Diviccaro, che si è fatta portavoce di una lotta cittadina a favore degli operatori dello spettacolo locale e che ho visto piangere di fronte alle porte chiuse del Teatro Curci di Barletta: penso, allora, che una speranza ancora ci sia.

Ed è da questa consapevolezza, legata all’appartenenza di un territorio che ha del potenziale. che desidererei partire per creare una comunità di artisti …. che sia un sogno o realtà lo vedremo solo agendo!

di Mariella Rinaldi

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