Home Arte e storia Agalma e la sua regista Doriana Monaco

Agalma e la sua regista Doriana Monaco

by Giulia Garzia

Facciamo due chiacchiere con Doriana Monaco, scrittrice e regista del film/documentario Agalma (2020).

Ti faccio un paio di domande classiche per rompere un po’ il ghiaccio. Allora, la top classic è: come mai hai deciso di fare la regista? Mi piacerebbe che mi parlassi un po’ di te, per capire in che modo sei arrivata a firmare la regia di un titolo che, si può dire ha sicuramente una risonanza internazionale.

All’università ho scelto la facoltà di archeologia e storia dell’arte, indirizzo discipline delle arti, quindi ho fatto degli esami di archeologia ma ho studiato principalmente storia dell’arte. Già durante l’università ero appassionata di cinema e ancor prima ho fatto qualche esperienze di regia. Durante il mio ultimo anno di studi mentre seguivo il corso di archeologia e mi stavo appassionando al documentario a un certo punto mi è venuta l’idea di unire le due cose; Insomma, non sono gli studi che mi hanno realmente indirizzata verso questa strada ma una serie di congiunzioni astrali, incontri e casualità hanno fatto sì che la intraprendessi. Così ho deciso di frequentare la Filmup a Ponticelli, scuola di cinema e documentario nella periferia di Napoli, lì ho avuto la possibilità di lavorare alla scrittura di questa idea. Poi sono successe tante cose che hanno reso tutto più completo, ho presentato il progetto al museo, di cui da poco era diventato direttore Paolo Giulierini che è sempre stato molto interessato all’audio visivo e a altre forme di fruizione.

Hai dei modelli di riferimento? Registi a cui ispirarti o a cui ti sei ispirata?

Quando ho deciso di realizzare questo film e ho cominciato a fare delle ricerche, a studiare, volevo arrivare a un risultato che non fosse di stampo divulgativo, provare a raccontare archeologia e arte classica in modo differente. Nel fare delle ricerche ho trovato documentari che avevano come protagonista il museo, ma pochi registi che si era espressi attraverso un linguaggio più libero: un esempio sicuramente è “National Gallery” di Frederick Wiseman, uno dei grandi registi del mondo del documentario, che ha lavorato per tutta la sua vita ad una forma di documentario più libera e osservativa, fuori dagli schemi, ad esempio, non utilizzando le interviste. Un altro modello di riferimento per me è stato “La Ville Louvre” di Nicolas Philibert: che raccontava un momento preciso al Louvre, quello del suo ri-allestimento; In questo documentario il regista ha avuto la possibilità di filmare il ri-allestimento del museo per qualche mese proprio durante questo periodo di chiusura. Questi sono i primi due titoli che mi vengono in mente, poi ne ho guardati sicuramente tanti altri che magari hanno una relazione con l’arte o che filmano l’arte in maniera interessante, ma questi due titoli sono stati sicuramente i più importanti per me.

Tu sei di origini beneventane, oggi vivi in Italia? Che vita stai conducendo in questo periodo e come ne stai uscendo sana e salva?

Vivo a Napoli, dopo la fine del film Agalma ho preso un periodo di pausa dopo tre anni di lavorazione, di tante cose e di sofferenze per portarlo alla fine, poi in qualche modo la pausa forzata sul pianeta terra è coincisa con questa mia pausa personale in cui avevo bisogno di prendermi del tempo per pensare a progetti futuri e ho deciso di andare in Francia, dove stiamo scrivendo un nuovo progetto per un documentario. Siamo tre registe, una delle tre francese; mi hanno invitato a lavorare in un paesino di campagna a Sud di Parigi, ho unito le due cose e sono stata lì due mesi durante i quali ci siamo dedicate alla scrittura di questo nuovo progetto. Quindi sì sto provando a sopravvivere come tutti, in maniera creativa, fattiva, ora non riuscirei a vedere un altro modo, adesso ho la possibilità di farlo ma è una condizione talmente effimera ed incerta che me la vivo e basta.

Entriamo nel merito di Agalma, tu hai diretto ma anche scritto questo film, quindi è praticamente un figlio tuo per cui voglio chiederti innanzitutto: perché hai deciso di chiamarlo così?

È un po’ enigmatico, non è un titolo facile, ma mi è venuto in mente quasi da subito perché nella fase iniziale delle ricerche mi sono imbattuta in questo termine e effettivamente mi sembrava emblematico, soprattutto perché non è una parola univoca, significa sia statua, che immagine, che icona. Mi sembrava che questa parola potesse rispecchiare esattamente quello che volevo trasmettere con questo film dove le statue sono protagoniste, però in quanto icone, immagini. La statua, in epoca antica, serviva per colmare un vuoto, quello del divino, per gli antichi le statue erano personificazioni di qualcosa, utilizzate nella vita quotidiana. Questo è il motivo per cui mi sembrava un titolo giusto, iconico. Poi mi piaceva molto il fatto che questa parola avesse un significato anche in psicologia e fosse legata al concetto di desiderio.

Vorrei chiederti, quali sono i problemi, gli ostacoli, le difficoltà che hai affrontato girando questo film?

È stata sicuramente un’esperienza meravigliosa, ma anche piena di ostacoli. Quando ho cominciato a pensare al film, una delle questioni centrali era come raccontare queste opere dal punto di vista visivo; ero partita da un’idea molto concettuale e astratta, non avevo una vera e propria storia da raccontare e l’elemento concettuale che più mi ha colpito è stato quello della frammentarietà. Una volta approdata nel museo questo punto di partenza però non mi è più bastato, perché mi si era formata nel frattempo un’altra idea, quella del museo come spazio, e la mia difficoltà a quel punto era come riuscire a filmare delle opere statiche, utilizzando un nuovo linguaggio, usando la macchina fissa. Un altro ostacolo è stato rappresentato dal fatto che dal punto di vista narrativo il film non si appoggia su un protagonista o su una storia precisa e invece i documentari anche quelli più liberi di creazione si affidano sempre alla forza di una storia da seguire, invece il mio film tutto questo non ce l’ha, quindi forse questo è stato l’aspetto più difficile, tenere in piedi un’ora di film guidando dei fili che sono invisibili.

Appena ho iniziato a guardare Àgalma la prima cosa che mi ha colpito è stata il silenzio che, per inciso, è una qualità che apprezzo molto nei film, e poi subito dopo la decisione di dare voce ai reperti in prima persona. Vorrei che tu mi spiegassi questa scelta.

Il film durante il suo processo creativo ha sviluppato due anime, l’elemento visivo di pura immagine e la quotidianità del museo che tra le due, stava acquisendo sempre maggiore importanza; queste anime avevano bisogno di essere consolidate, correndo il rischio di mostrare le opere senza l’ausilio di una didascalia o di una guida e privarle di una narrazione. Questo è stato un problema che ho avuto fino a un certo punto, finché sempre facendo ricerca e studiando non è stata di nuovo l’archeologia a darmi una mano, perché ho scoperto che gli antichi greci già davano la parola alle statue, come ad altri manufatti artistici, tramite delle iscrizioni in prima persona; in particolare ho letto ciò che ha scritto Giuseppe Pucci – professore ordinario di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana nell’Università di Siena, purtroppo scomparso nel mese di febbraio (ndr), il quale si è occupato nei suoi studi della relazione tra archeologia e cinema – nel suo saggio: “Statua perché non parli”. Così mi sono imbattuta proprio in quello che cercavo. Il fatto che gli stessi antichi immaginassero le statue parlare in prima persona mi ha convinto e da lì è iniziato un lungo lavoro di realizzazione dei testi.

Dal silenzio, dove gli unici rumori sono “le voci del museo” si passa a uno spezzone techno vagamente erotico e decorato da luci al neon. Lì cosa succede?

Passando così tanto tempo nel museo avevo alla fine cominciato ad avere quasi delle visioni: ricordo che un giorno stavo facendo una sessione di riprese filmando le statue da sola, cercando la luce giusta al giusto orario. Stavo ascoltando la musica con le cuffie e a un certo punto, suggestionata dalla musica, ho immaginato una sorta di danza elettronica. Anche qui il collegamento va al fatto che si è scoperto che le statue, soprattutto in epoca arcaica, erano colorate, ho giocato con questo aspetto. Ricordo anche di essermi imbattuta in una scena de “Les Amours imaginaires” un film di Xavier Dolan dove c’è la scena di una festa con un ragazzo biondo che ricorda Apollo e la Dolan gioca con le luci e alterna la faccia del ragazzo con una statua di Apollo e questo è sicuramente uno degli elementi del calderone che mi ha ispirato.

È un periodo molto complicato e incerto, sia per lo spettacolo che per il turismo. Vorrei sapere come pensi evolveranno le sorti di queste categorie e se sei speranzosa per il futuro, dato che hai scelto una carriera sicuramente difficile, ma mai come ora forse.

Penso che siamo tutti un po’ divisi tra chi spera che questa sia una parentesi che in qualche modo finirà, e chi invece sta provando ad andare avanti evolvendo. Sono fiduciosa, perché c’è bisogno di fiducia in questo momento, ma non solo, non bisogna lasciarsi tramortire, anche se concretamente i cinema stanno chiudendo e questa è una realtà. La mia carriera è appena cominciata quindi non riesco a identificarmi in una specifica professione, non mi sento ancora di poter parlare per una categoria, ma di sicuro posso affermare che viviamo in un paese dove fare arte, fare cinema, è difficile, lo era già prima del 2020 e forse per questo motivo adoperarsi affinché l’arte diventi tema centrale, una priorità e non un passatempo.

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