Home NewsClassica The Messiah: un prodigio in musica. Guida alla scoperta del capolavoro di Händel

The Messiah: un prodigio in musica. Guida alla scoperta del capolavoro di Händel

by Paologiovanni Maione

È bensì vero che nella meravigliosa creazione [del Messiah] ci sono grandi diseguaglianze, come per lo più nelle composizioni di Händel; ma chiunque la voglia esaminare attentamente, dovrà considerarla un autentico prodigio. Adopero quest’espressione perché non c’è parola capace di esprimere il suo carattere.

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Corsi fluviali, strade impervie e percorsi marini sono battuti nel Settecento da una laboriosa umanità, provetta nelle arti dei suoni, alla ricerca di accoglienti palazzi teatri chiese in grado di valorizzare il magistero acquisito in anni di formazione o almeno di apprezzare il grado di professionalità conquistato. Supplici si rivolgono a istituzioni pubbliche e private, laiche e religiose senza disdegnare mansioni meno allettanti e più avventurose purché in grado di fornire un approvvigionamento economico dignitoso. Su queste strade, attraversate anche da quei musicisti la cui perizia è contesa da più parti in un viaggio fatto di rosee prospettive, si incrociano giovani mossi da un’urgente necessità di apprendere l’arte lì dove più progrediti sono la didattica e il gusto, verso mete chimeriche segnalate da baluginanti sale teatrali erte a fari d’Europa e abitate da sapienti maestri, veri alchimisti delle scene tutte.

È l’Italia la terra delle arti, la patria della musica, l’indiscussa progenitrice del melodramma, la fucina delle maestranze più ambite sul mercato; il noviziato di molti si realizza con il viaggio per le grandi “piazze” del bel paese. Tappe nevralgiche sono Venezia Roma Napoli, città presso le quali è possibile scrutare e rubare il gran mestiere nonché aspirare al debutto, grazie a opportuni patronati, al fine di verificare le proprie potenzialità. D’Oltralpe arrivano giovani speranzosi di raggiungere quella perizia, tutta italiana, richiesta in ogni remota regione del continente per poter ostentare una cifra rifulgente al cospetto della comunità; reclamano legami e ricercano “blasoni” da vantare in giro, mentre patti di fedeltà si suggellano in nome di una visibilità da ostentare sulla scena del mondo. Le alleanze stipulate dagli artisti con il gotha europeo scatenano un favorevole susseguirsi di opportunità lavorative segnate da percorsi tattici disegnati su una mappa politico-diplomatica.

Questa geografia del potere traccia le direttrici esclusive di fulgide o rassicuranti carriere, destinate a durare per l’intera esistenza, anche se possibili ribaltamenti politici determinano talvolta il sovvertimento della raggiunta fortuna.

Nel primo scorcio del diciottesimo secolo il ventunenne Händel abbandona Amburgo, palcoscenico dei suoi primi cimenti teatrali, e giunge in Italia seguendo un itinerario quasi obbligatorio che lo conduce a Venezia, Firenze, Roma, Napoli, sotto l’egida dei gigli medicei, a cui ben presto si affiancano i blasoni delle case dei Pamphilj, Ottoboni, Ruspoli, Alvito, Grimani.

Nel corso del tour italiano ha l’opportunità di incontrare figure di prestigio quali Alessandro e Domenico Scarlatti, Corelli, Caldara; durante il triennio 1706-1709 il “Sassone”, nelle sue scorribande per la penisola, apprende il “gusto moderno” e si avvicina ai generi imperanti presso quella società che ormai dettava legge in campo musicale.

L’opera – Rodrigo (Firenze, 1707) e Agrippina (Venezia, 1709) –, le cantate da camera – spiccano tra queste Armida abbandonata, Delirio amoroso, Ero e Leandro, Diana cacciatrice –, gli oratori – Il trionfo del Tempo e del disinganno, La Resurrezione –, la serenata – Aci, Galatea e Polifemo –, la musica sacra – mottetti, salmi, cantate – e la musica strumentale sono i generi nei quali dà prova della sua maturazione artistica e soprattutto dell’accondiscendenza a quello stile ormai senza confini. La perizia profusa nei generi segna anche la conclusione del suo tirocinio di formazione che si compie a Venezia con la produzione dell’Agrippina, sorta di viatico che lo proietta sul mercato musicale internazionale.

In Italia ha la possibilità di progredire nell’arte compositiva e di verificare il grado di apprendimento in esclusivi cenacoli che ne promuovono e saggiano amorevolmente l’ingegno e il magistero acquisito. Le residenze aristocratiche e i centri religiosi favoriscono la sua produzione certificandone i progressi, secondando una vocazione plurisecolare che le vedeva sempre in prima linea nell’incentivare il progresso delle arti, in un ruolo di operose officine dove sperimentare e collaudare inusitati manufatti da proporre poi al giudizio universale.

Il percorso di formazione rende Händel un eccellente artigiano addentro ai segreti della fascinosissima macchina musicale, pronto a conquistare le piazze europee più ambite: sarà Londra il campo delle sue maggiori sfide in una tenace operazione di diffusione dell’opera italiana. L’esperienza britannica inizia sotto i migliori auspici con il notevole gradimento riscosso dal Rinaldo (1711), in cui il celebre Nicola Grimaldi si cimenta lasciando vacante il suo posto presso la Cappella Reale di Napoli, per poi concretizzarsi negli anni successivi con una serie di attestazioni che ne suggellano l’indiscusso successo. Le commissioni della corte lo portano progressivamente a varie mansioni ufficiali che lo vedono maestro delle principesse reali e compositore della “Cappella Reale di Sua Maestà”. La sua vita, sulle rive del Tamigi, è comunque contraddistinta da discontinuità di fortuna ed è legata strettamente agli scenari politici. È qui che diviene avventurosa la sua attività e poliedrico il ruolo all’interno dell’organizzazione teatrale, che lo vedrà anche assumere il compito di impresario.

Al di là delle alterne vicende e delle accese contese artistiche con alcuni prestigiosi colleghi chiamati a contrastargli la piazza in quei contenziosi all’insegna di strategie politiche nelle quali gli artisti erano chiamati involontariamente in causa, Händel affina e aggiorna sempre più il proprio bagaglio artistico, pervenendo ad uno stile autonomo e originale, allineato alle più progredite tendenze coeve nonché alle aspettative del pubblico londinese. Un’operazione tesa a cogliere stilemi e forme dissimili per un ordito che trae linfa da scritture diverse per un prodotto unico, la cifra stilistica händeliana è ragguardevole e riconoscibilissima in quella sapiente mescidanza di linguaggi compositivi che portano a un’architettura inusitata.

Esemplare di questo processo creativo sono gli oratori in lingua inglese dove le singole esperienze musicali accumulate nel corso della vita trovano un naturale approdo. L’oratorio italiano, le forme dello spettacolo musicale e le sue convenzioni stilistiche, le caratteristiche dell’anthem, la eco francese della tragédie, il contrappunto severo tedesco contribuiscono al divenire di uno spettacolo «in which the Solemnity of Church-Music is agreeably united with the most pleasing Airs of the Stage». Il passo tratto dalla prefazione dell’oratorio Samson, a firma del librettista Newburgh Hamilton, ben riassume l’istanza sottesa al genere codificato da Händel in ossequio alla sua spiccata natura di melo drammaturgo; inoltre, il prodotto era destinato alla sala teatrale, sebbene non si servisse di quegli strumenti performativi e scenici propri dell’opera. La fascinazione è tutta da ricercarsi nella suggestiva maestria sonora elaborata con chiari intenti “teatrali”, distaccandosi in tal modo dall’austera tradizione germanica e ammiccando al pubblico con una catechesi più allettante e alla moda. «Del resto, l’oratorio rappresenta un vero e proprio capitolo a parte nella storia della musica inglese, stabilendosi come uno dei generi più saldamente legati alla cultura anglosassone e l’opera di Händel ne evidenzia buona parte, stabilendo convenzioni di scrittura e di comportamento che avrebbero retto all’incirca per ben due secoli».

Concepito per un teatro “mortificato” nella sua vocazione spettacolare, l’oratorio fa ammenda attraverso una “rappresentazione” evocata per occhi visionari e menti suggestionabili, rivelando le potenzialità del compositore di fare “teatro” con la sola arte dei suoni. Sulle “ceneri” dell’interrotto sodalizio con l’opera nasce il Messiah HWV 56 nel 1741, anno all’insegna di grandi sommovimenti nella vita del compositore tedesco che dà l’addio alle scene melodrammatiche concludendo, con la messinscena della Deidamia, un’esperienza strepitosa e contraddittoria. L’oratorio in tre parti per soli, coro e orchestra è concepito nel corso dell’estate, in un breve lasso di tempo; una manciata di settimane basta a Händel per allestire una partitura alla quale il suo nome è indissolubilmente legato. Il 22 agosto ha inizio l’impresa che si conclude il 14 settembre, le tre parti della monumentale pagina sono datate rispettivamente 28 agosto, 6 e 12 settembre.

La folgorante scrittura è alimentata dal testo approntato da Charles Jennens, già redattore dei testi Saul (1738) Israel in Egypt (1738) L’Allegro, il Pensieroso ed il Moderato (1741), su materiali tratti dalla Bibbia di re Giacomo nota in Inghilterra come Authorized Version – l’edizione contiene la traduzione ufficiale delle Sacre Scritture secondo l’interpretazione della chiesa inglese dopo lo scisma da Roma – e dal Book of Common Prayer che riunisce testi di quotidiana devozionalità. L’intellettuale assembla i vari materiali preesistenti pervenendo ad un equilibrato e ben congegnato prodotto. Il mosaico vede l’utilizzo dei seguenti materiali:

 

Libro del profeta Isaia, 40, 1-5

Libro del profeta Aggeo, 2, 6-7

Libro del profeta Malachia, 3, 1-3

Libro del profeta Isaia, 7, 14 / Vangelo secondo Matteo, 1, 23

Libro del profeta Isaia, 40, 9; 60, 1-3; 9, 2 e 6

Vangelo secondo Luca, 2, 8-14

Libro del profeta Zaccaria, 9, 9-10

Libro del profeta Isaia, 35, 5-6; 40, 11

Vangelo secondo Matteo, 11, 28-30

Vangelo secondo Giovanni, 1, 29

Libro del profeta Isaia, 50, 6; 53, 4-6

Libro dei Salmi, 22, 8; 22, 7; 69, 21

Lamentazioni, 1, 12

Libro del profeta Isaia, 53, 8

Libro dei Salmi, 16, 10; 24, 7-10

Lettera agli Ebrei, 1, 5; 1, 6

Libro dei Salmi, 68, 18 e 11

Lettera ai Romani, 10, 15 e 18

Libro dei Salmi, 2, 1-4 e 9

Apocalisse, 19, 6; 11, 15; 19, 16

Libro di Giobbe, 19, 25-26

Prima lettera ai Corinzi, 15, 20-22 e 51-53 e 55-57

Lettera ai Romani, 8, 31 e 33-34

Apocalisse, 5, 12-14.

 

La successione dei segmenti provenienti da libri dissimili è ben architettata in un montaggio scandito da tre grandi blocchi tematici, contraddistinti dalle profezie sulla venuta del Messia, dalla nascita passione resurrezione e ascensione, dalla vita ultraterrena che attende i mortali.

L’impresa, forse intrapresa in vista di una nuova serie di concerti che il musicista intendeva organizzare a Londra, si manifesta nella periferica Dublino. Nell’autunno del 1741 Händel accetta la proposta di William Cavendish, Lord Lieutenant of Ireland, di portarsi a Dublino per allestire una serie di concerti a sottoscrizione. Il 13 aprile 1742 si svolge la prima esecuzione dell’oratorio, organizzata per raccogliere fondi a beneficio dei carcerati; il concerto si tiene non in un teatro ma nel nuovo Music Hall di Fishamble Street, sede della Charitable Musical Society, di cui è sovrintendente William Neal:

 

For Relief of the Prisoners in the several Gaols, and for the Support of Mercer’s Hospital in Stephen’s Street and of the Charitable Infirmary on the Inn’s Quay, on Monday the 12th of April [recto April 13], will be performed at the Musick Hall in Fishamble Street, Mr. Handel’s new Grand Oratorio, called the MESSIAH, in which the Gentlemen of the Choirs of both Cathedrals will assist, with some Concertos on the Organ, by Mr Handel.

 

Il cast della rappresentazione comprende il soprano Christina Maria Avolio, il contralto Susanna Maria Cibber, il controtenore Joseph Ward (che canta «Then shall be brought to pass» e «O death, where is thy sting»), il controtenore William Lambe (che canta «Behold a virgin shall conceive», forse «O thou that tellest good tidings to Sion», «He that dwelleth in Heaven» e «Thous shalt break them»), i tenori James Baileys e John Church e i bassi John Mason e John Hill (che canta «Why do the nations so furiously rage together?»); il coro annovera trentadue elementi – sedici ragazzi e sedici adulti – e l’orchestra si compone di violino I e II, viola, violoncello, tromba I e II, timpani e continuo. L’essenziale compagine strumentale subirà nelle riprese diverse modifiche: l’oratorio verrà rimaneggiato dallo stesso Händel nel 1743 (Covent Garden Theatre – il cast comprende i soprani Christina Maria Avolio, Catherine Clive e Edwards; il contralto Susanna Maria Cibber; i tenori John Beard e Thomas Lowe e il basso Henry Theodore Reinhold), 1745 (King’s Theatre, Haymarket – la locandina prevede i soprani Elisabeth Duparc e Robinson; il contralto Susanna Maria Cibber; il tenore John Beard e il basso Henry Theodore Reinhold), 1749 (Covent Garden Theatre – il soprano Giulia Frasi, il contralto Caterina Galli, il tenore Thomas Lowe e il basso Henry Theodore Reinhold), 1750 (Covent Garden Theatre e Foundling Hospital Chapel – Giulia Frasi, Gaetano Guadagni, Caterina Galli, Thomas Lowe e Henry Theodore Reinhold); dopo il felice debutto dublinese la partitura viene offerta al pubblico londinese con quegli accomodi resi necessari dalla diversa compagnia di canto, al fine di valorizzare appieno le capacità tecnico-espressive dei nuovi esecutori in ossequio alle consuetudini performative del tempo, e alle diverse aspettative del pubblico per cui l’autore rimodula l’ensemble con l’aggiunta degli oboi e un maggior numero di leggii.

L’oratorio si articola in cinquantadue numeri suddivisi in sedici arie, tredici recitativi, ventuno recitativi, una Sinfony e una Pifa. La costruzione della pagina avviene su un campionario di strutture variegate. Händel fa tesoro del suo enorme bagaglio di esperienze che convergono all’interno della partitura. In filigrana è possibile enucleare una fitta scelta di topoi musicali che affondano, talvolta, la propria origine in materiali la cui memoria era del tutto sconosciuta, rimasti nell’immaginario sonoro del tempo grazie a quel copioso repertorio di espedienti preconfezionati a cui i compositori attingevano senza scrupolo alcuno. È un florilegio di cellule motiviche, soluzioni ritmiche, processi armonici che avvantaggiano la scrittura dell’autore in quella frenetica richiesta del mercato poco paziente nell’attesa dell’atto creativo; gli uomini di “spettacolo”, sicuri della effimera vita dei propri manufatti e poco previdenti su una posterità ghiotta di archeologie sonore, senza pudore si passavano il prontuario arricchendolo a loro volta di nuove inusitate trovate. Si tratta di un magistero che richiede un ingegno non comune, per cui solo ad una scelta accolita riusciva di influenzare il corso dell’arte. Le pagine del Messiah attingono variamente a questo vademecum sia in modo esplicito che implicito; ad esempio, sin dalle prime carte, in bell’evidenza, si profila una cellula assai cara alla scrittura tardo seicentesca ampiamente testimoniata nell’opera di Alessandro Scarlatti – le battute 4-7 del ritornello strumentale dell’aria «Ev’ry valley shall be exalted» (1.3) – e che immediatamente richiama le “rugiadose” e “odorose” violette che in dissolvenza contribuiscono allo scenario profetico di Isaia «Ev’ry Valley shall be exalted, | and ev’ry Mountain and Hill made low, | the Crooked straight | and the rough Places plain».

In effetti il musicista avvia la partitura seguendo strategie sopraffine che vanno dall’austero uso della forma dell’ouverture francese per la Sinfony con la sezione d’apertura Grave contraddistinta dalla scrittura omofonica degli archi su ritmo puntato, il cui solenne inizio è succeduto da un tempo Allegro moderato con una fuga avviata dal violino I e che al termine torna riprendendo le tre battute del Grave iniziale, al recitativo del tenore suddiviso in due segmenti rispettivamente arioso e accompagnato; da sottolineare sono le note lunghe adoperate per il lemma «comfort» che preludia alla stessa soluzione di «plain» dell’aria seguente. L’aria «Ev’ry valley» è nella forma AA’ e presenta lunghi melismi su «exalted» nonché altre soluzioni “descrittive” quali il menzionato «plain» e «low» per cui ricorre a note lunghe solo a volte leggermente fiorite.

Le prime pagine offrono un impatto assai forte e introducono a una partitura che sarà all’insegna della varietà; per le diverse arie il Sassone ricorre a tutto il campionario formale, da quelle bipartite a quelle tripartite con da capo e dal segno – anche nell’organizzazione pentapartita come nel caso di «He was despised» –, da quelle in sezioni giustapposte a quelle che avviate dal solista sono poi concluse dal coro – esemplare è l’aria di “furore” del basso «Why do the Nations so furiously rage together» la cui sezione finale è affidata al coro. In quest’ultima appare chiaro il ricorso a stilemi consolidati di procedimenti cari agli ascoltatori – le furenti successioni di semicrome e la concitata vocalità con i lunghi melismi su «rage» e «imagine» – né sorprendono quelle altre pagine ascrivibili ai più collaudati ritrovati melodrammatici, come nell’aria AA’B dal segno (AA’ senza il ritornello strumentale iniziale) con tromba «The Trumpet shall sound», in cui la voce s’allinea alle arditezze dello squillante strumento. L’amplificazione di immagini è affidata alle magie melismatiche copiosamente contenute nei ricchi “bauli” degli artisti, sia per lumeggiare occorrenze “pittoriche” sia per descrivere impalpabili affetti, senza tralasciare quei passaggi poetici che nell’economia drammatica meritano un respiro maggiore. A tal proposito si rinvia al «born» contraddistinto da fioriture nel coro «For unto us a Child is born». Per questa pagina corale Händel ricorre alla pratica dell’autoimprestito utilizzando il recente materiale del duetto No, di voi non vo’ fidarmi, HWV 189, ma a questo costume, assai invalso al tempo, deve alcune pagine il Messiah,. Si pensi, tra l’altro, al duetto Quel fior che all’alba ride HWV 192 (nei cori «And He shall purify» e «His Yoke is easy»), alla Sonata a tre in do maggiore HWV 403 e al duetto Se tu non lasci amore HWV 193.

Il coro «For unto us a Child is born» apre la sezione conclusiva della prima parte e introduce al magico brano strumentale contraddistinto dal titolo Pifa. Questa pagina pastorale in 12/8, la cui melodia è di chiara ascendenza italiana (come non ravvisare il baluginare di melodie natalizie tuttora familiari?), inaugura l’unico segmento testuale storico che narra della nascita di Gesù. Lo stile pastorale ricompare dopo poco nel duetto «He shall feed His Flock like a Shepherd». La successione recitativo semplice – recitativo accompagnato – recitativo semplice – recitativo accompagnato – coro – aria – recitativo semplice – duetto – coro scandisce i momenti salienti di questa narrazione con quella sapienza che è la cifra dell’autore: la notte santa si materializza in uno sfavillante volo di angeli e di sonnolenti pastori che attoniti partecipano alla gloria celeste. Il brano è in climax ascendente e la prima sezione culmina nel grande coro «Glory to God», dove compaiono nell’organico le trombe. Lo svanire delle schiere angeliche è pressoché evanescente nell’assottigliarsi dell’organico strumentale a cui segue la lussureggiante aria (per la prima volta appare nella sua forma più articolata) del soprano «Rejoice greatly». Dopo il duetto, in cui ritorna il carattere pastorale, la prima parte si chiude con il festoso coro «His Yoke is easy».

È il coro a sostenere un ruolo, senza dubbio alcuno, rilevante. Händel profonde nelle pagine corali un magistero straordinario in cui si fondono in maniera armoniosissima stilemi diversi. Il rigoroso contrappunto tedesco convive senza attrito alcuno con la tecnica dell’anthem, tanto che in uno stesso brano il procedimento imitativo si unisce al dialogo concertante tra le voci pervenendo a segmenti omofoni che danno vita a molteplici architetture. Questa è, ad esempio, un’alchimia profusa a piene mani nell’«Allelujah!»: il celeberrimo finale della seconda parte dell’oratorio ostenta un campionario variegato di soluzioni stilistiche che vanno dalla scrittura imitativa a quella omofonica, dalla mottettistica alla fugata, dalla combinazione contrappuntistica alla declamazione, fino all’assemblaggio compatto in successione di materiali variamente esposti in precedenza.

L’enorme successo del Messiah nel corso dei secoli è forse proprio da addurre alla capacità del musicista di mediare tra tanti linguaggi e convenzioni trovando «un naturale punto d’incontro con le drammatizzazioni del sacro nate nelle chiese cristiane: italiana e cattolica, tedesca e luterana, inglese e anglicana»; ma soprattutto il capillare favore va rintracciato nell’aver saputo coniugare mirabilmente le esigenze delle “scene” sacre e profane.

 

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