Il bello di alcuni romanzi è che sono pubblicati con l’intento di rivolgersi a determinate categorie di lettori per poi scoprire che, in realtà, questi confini non esistono o che, per lo meno, sono così poco definiti che la storia prende il sopravvento e le categorie di cui sopra lasciano il tempo che trovano.
Tra questi, “La Memoria delle Farfalle” (Rizzoli), l’opera prima di Annamaria Piscopo – classe 1987 – che nasce destinata a un pubblico “giovane” ma che, per i temi che affronta e per come li tratta, per i diversi registri linguistici e stilistici che adotta, può coinvolgere anche una fascia di lettori più “adulti”.
La storia inizia con due sedicenni, Giulia e Alice, due amiche per la pelle che si stanno salutando dopo aver passato il pomeriggio insieme. La loro amicizia, però viene interrotta troppo presto dall’improvvisa morte di Alice, un evento che costringerà Giulia a confrontarsi con la prima grande perdita della sua vita e con tutto quello che ne consegue. In questo viaggio, però, non sarà sola: al suo fianco ci sarà Mattia, con cui scoprirà l’amore, e Angela, la sua psicoterapeuta, una donna dal passato non risolto e caratterizzata da un forte istinto di protezione.
Il romanzo appartiene alla categoria narrativa dei Young Adult. Come mai la tua opera prima si indirizza a questo pubblico specifico di lettori? Si è trattata di una scelta voluta?
Il romanzo è nato spontaneamente. In realtà avevo in mente la storia di Giulia e Mattia da molto tempo ma non avevo pensato né a etichette né ad una classificazione. La storia si rivolge soprattutto agli adolescenti ma, a mio avviso, la voce di Angela coinvolge anche una fetta di adulti o trentenni che possono riconoscersi nelle sue indecisioni.
La narrazione si apre con una scena dalle atmosfere molto serene: Giulia e Alice si stanno salutando nei pressi della metro dopo aver trascorso del tempo insieme in centro, a Roma. Sono giovani, belle, rappresentano l’una il mondo dell’altra, ma poi, di colpo, tutto cambia. Alice muore. Una scena forte che mette subito il lettore di fronte a quello che è il punto di non ritorno. Perché hai scelto proprio un incipit così drammatico?
L’incipit drammatico è stato il motore di tutta la narrazione cosi come l’ho immaginata nella mia testa. Mi spiego meglio: la morte di Alice è il punto di partenza, parliamo di una fine ma in qualche modo per Giulia è uno scossone. Dopo lo smarrimento dovuto al lutto, si rimbocca le maniche e fruga nella sua testa alla ricerca di quella storia che ho messo nero su bianco. Questo perché piacciono le immagini forte, sono essenzialmente una persona drammatica.
Subito dopo l’episodio della scomparsa di Alice facciamo la conoscenza di Mattia, un ragazzo della Garbatella che nel pomeriggio, dopo la scuola, lavora in un allevamento di farfalle. La sua è una passione nata quando sua madre si ammala, ma che continua a coltivare per non interrompere la comunicazione con lei dopo la sua morte. Anche lui, come Giulia, deve fare i conti con un’assenza. L’approccio di Giulia alla perdita, invece, ha una modalità completamente diversa: «Per tre giorni non ho parlato. Non che non potessi, ma non volevo. Appena credevo di essere pronta, ci ripensavo, non volevo affogare nelle mie parole, non volevo parlare di quello che avevo visto». E così nella sua vita arriva Angela.
Giulia e Mattia affrontano il dolore in maniera diversa ma, come dice ad un certo punto Angela: «il dolore non è qualcosa di personale, somiglia così tanto al dolore degli altri. Per questo lo puoi condividere». È proprio la condivisione del dolore che porta i personaggi a gravitare intorno un centro comune e ad avvicinarsi. Sono giovani ma sono, allo stesso tempo, segnati da esperienze personali che li portano – loro malgrado – a crescere. Spesso in Giulia ho messo miei pensieri, ho esorcizzato il mio dolore. Il dolore ci rende simili a prescindere dall’età.
Angela introduce un altro tema importante: quello della memoria. Una memoria che cancella episodi spiacevoli della propria vita; una memoria a cui ci si aggrappa con tutte le forze perché il ricordo ti tiene a galla; e poi c’è la memoria della farfalla, che si accende in lei solo quando supera lo stato di crisalide.
Per Angela la memoria del passato la porta a diventare, infatti, il collante gruppo. Le sue esperienze la inducono a prendere per mano i ragazzi, andando al di là del mero ruolo di psicoterapeuta.
La seconda parte del romanzo è ambientata per buona parte a Napoli che si rivela, per tutti, portatrice di nuove consapevolezze: qui, Giulia e Angela devono fare i conti con verità scomode ma necessarie; Giulia e Mattia iniziano a frequentarsi a Roma, ma è a Napoli che si dichiarano innamorati l’una dell’altro ed è a Napoli che fanno l’amore per la prima volta. Perché proprio questa città?
Ho deciso di ambientare la prima parte del romanzo a Roma perché volevo che le rivelazioni avvenissero a Napoli, che, anche se sono originaria di Avella, un paese della provincia, la considero la mia città. E, per farlo, mi sono trasformata in una turista che andava alla ricerca di vicoli e quartieri che esistevano solo nella mia testa.
Un altro interessante argomento che si tratta nel romanzo è quello della diversità: Giulia si sente diversa da Alice perché non si ritiene bella come lei; Mattia si sente diverso dagli altri ragazzi perché è più taciturno, riflessivo, e ha questa insolita passione per le farfalle; Francesco, il migliore amico di Mattia, è un ragazzo che combatte, purtroppo anche fisicamente, il pregiudizio degli altri sulla sua omosessualità; anche Alice è una diversa, perché scopre di vivere una vita che non è completamente la sua. Dal tuo punto di vista, un romanzo può essere importante per aiutare le giovani generazioni a riconoscere e affrontare questo delicato tema che interessa la nostra società?
“La Memoria delle Farfalle” non ha un’ambizione sociale dichiarata, ma si il messaggio che volevo trasmettere è che le diversità ci rendono unici e vanno accettate perché, a mio avviso, l’omologazione ci rende ottusi. Se io sono uguale a te, cosa posso imparare? Mi piace pensare che i ragazzi che leggeranno il romanzo possano identificarsi nei tipi umani che ho descritto e non devono per forza riconoscersi nei protagonisti. Nel mio romanzo anche i personaggi secondari hanno una voce.
Riguardo al linguaggio, nel romanzo hai adottato varie tipologie di registri verbali, tra cui la presenza del dialetto romanesco e di quello napoletano. Su quale di questi hai dovuto fare una maggiore ricerca stilistica? Quale linguaggio ti ha fatto sentire più a tuo agio?
Per il linguaggio ovviamente ho avuto qualche piccola difficoltà con il dialetto romano, ma non nascondo che scrivere in napoletano non è stata una passeggiata. Per me è una lingua parlata ma metterla nero su bianco è stata tutta altra storia.
Come nasce il tuo approccio alla scrittura e come si arriva a pubblicare con una casa editrice così importante come Rizzoli?
Di base ho un percorso di studi scientifici alle spalle, sono infatti laureata in biologia. Il mio primo approccio con la letteratura avviene quando mi iscrivo al laboratorio di scrittura creativa “La linea scritta” di Antonella Cilento. Posso definirla la mia insegnante perché prima nessuno mi aveva insegnato i metodi di scrittura. A mio avviso è molto importante avere talento ma è il metodo a darti il senso di quello che stai facendo, per cui raccomando a chi ha questa passione di investire in un corso ben fatto come quello che ho frequentato io per tre anni a Napoli. Da lì poi ho contattato l’Agenzia Letteraria Walkabout – che è la mia attuale agenzia – che ha creduto nel mio romanzo e lo ha proposto a Rizzoli. È una scommessa e speriamo di vincerla.